Fabrizio RICCA |
Ragionare di euroregioni
significa prendere atto di una situazione di stallo, o addirittura di
fallimento. E’ sotto gli occhi di tutti come l’Occidente, così come lo abbiamo
conosciuto, con la forza degli Stati nazionali e l’equilibrio imposto dai due
blocchi della Guerra Fredda, sia andato disgregandosi, sotto i colpi di
economie incalzanti ed autoritarie (la Cina), o di culture impostate su una
totale fusione dei piani politico e religioso (l’Islam). In questo contesto,
l’Italia ha dimostrato stancamente di non essere mai nata, rimanendo di dolore
ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, incastonata in un’Europa che
non ha saputo strutturarsi per diventare un soggetto credibile: un sovraente
senza rappresentatività, un nuovo livello legislativo che produce regolamenti e
direttive, pronte ad abbattersi indiscriminatamente su popoli che non hanno più
neanche il diritto di essere consultati.
In Italia si verifica ciò che in
Europa rappresentano Germania e Grecia: convivono sistemi opposti, uno
fortemente moderno, federale e basato sulla libertà della società civile di
investire e svilupparsi, l’altro assistenzialista, in cui l’individuo si
aspetta – ed esige – che sia lo Stato a garantirgli dignitose condizioni di
vita. Uno dei due sistemi ha un futuro, l’altro no. Per rimanere su un piano
concreto, l’Italia eredita la propria mentalità dalla propria storia,
caratterizzata prevalentemente, nel Centro-Nord, dal ruolo dei Comuni e, al
Sud, dai latifondi borbonici: si è creato così uno iato tra le due popolazioni
che parlano la stessa lingua comune, ma decine di altre lingue e dialetti; e si
è creata così una condizione per cui negli ultimi quindici decenni una
“questione Meridionale” non è mai stata risolta. A nulla è valsa la Cassa del
Mezzogiorno e a nulla sono servite le politiche centraliste di uno Stato che
voleva affermarsi proprio nel momento in cui la sua funzione storica veniva
meno, con l’affacciarsi morboso di un’Europa bancaria e finanziaria dalle
lunghe mani e dalle dita sottili.
Consapevoli delle differenze
interne al Paese, è quindi necessario provare a gettare il cuore oltre
all’ostacolo di questa crisi e, nel farlo, immaginare soluzioni diverse a
quelle, troppo timide, tentate fino ad ora. La riorganizzazione è necessaria,
per evitare un fallimento di sistema che sacrifichi i valori fondanti sui quali
si è deciso di impostare la nostra società (e senza i quali si ricadrebbe nel
più assoluto relativismo): il mercato e l’economia, da un lato e la democrazia,
dall’altro.
Non è sostenibile un principio di
“solidarietà” nazionale che duri da un secolo e mezzo: lo si evince chiaramente
dalle definizioni che dà del principio la Corte Europea, lo dimostra
chiaramente il fatto che in Germania tale principio sia durato meno di una
decina d’anni, per riportare l’Est al livello della Germania occidentale, dopo
l’unificazione del 1989. Oggi, l’economia di quattro Regioni sostenta le
restanti, con il conseguente annichilimento di qualsiasi velleità
concorrenziale delle imprese delle quattro regioni virtuose con il resto del
mondo. Un limite ed un freno che si incarnano in una pressione fiscale
percepita al 70%, che porta a comprensibili fenomeni di evasione a tutela di
dipendenti e lavoro, in un mercato stagnante per tutti i paesi ma qui, in
Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, particolarmente drammatico. Il
gettito fiscale da quest’area geografica “omogenea” vede un ritorno di
investimenti sul proprio ritorno di circa il 35% del totale: ogni 100 euro
spesi in tasse, ne tornano (e senza neanche troppa efficienza) 35 in servizi.
Una situazione del tutto intollerabile, in cui il Centralismo, oggi
improvvisamente e antidemocraticamente tornato in auge a discapito di percorsi
decennali di riforma e della volontà popolare maturata in anni, si pone come
l’ultimo rigurgito di un mondo finito e sordo alle istanze della modernità. Il
Governo tecnico che ciecamente svuota gli enti locali di fondi e senso,
sfruttando l’onda dell’opinione pubblica indignata per scandali di singoli
politici, è il fallimento di un progetto che risponde all’esigenza di
rinnovamento che parte dai popoli e dagli individui.
Noi vogliamo un’Europa che abbia
rappresentanza diretta dei popoli e sia formata da macro-regioni omogenee,
perché solo così l’Europa potrà avere un funzionamento virtuoso e duraturo.
Vogliamo un’Italia in cui la solidarietà non sia più sfruttamento delle aree
produttive, ma in cui i territori sviluppino le proprie naturali vocazioni,
amministrati in base al principio di sussidiarietà e con una diretta
corrispondenza tra le tasse pagate ed i servizi ricevuti, in un rapporto con
gli enti pubblici schietto e trasparente. Con questa formula si può sperare di
recuperare una situazione che sta precipitando vertiginosamente tra furori
popolari pilotati, lobby bancarie e finanziarie senza scrupoli e pressioni
costanti, anche demografiche, esercitate da altre Civiltà iperfertili e
culturalmente fondate su valori aggressivi e primari che rischiano di mettere
seriamente in difficoltà l’assetto dello Stato di Diritto così come maturato in
secoli di evoluzione filosofica e giuridica occidentale.
Fabrizio RICCA