Giovanni Vagnone di Trofarello e di Celle : DEMOCRAZIA ALLO STREMO


Giovanni Vagnone di Trofarello e di Celle
“In tempi di tramonto, anche i piccoli uomini hanno lunghe ombre.” (Ernst Jünger)
Da rappresentante del livello amministrativo più vicino ai cittadini, non posso che fare in questi tempi di crisi una riflessione che parte dal basso e di lì arriva ai principi su cui, mutatae mutandis, la democrazia moderna stessa si fonda. La congiuntura economica che colpisce il mondo privato dell’imprenditoria, del commercio, delle libere professioni ma che nasce, cresce e si sviluppa prevalentemente in ambito finanziario, è un campanello d’allarme di una situazione giunta al capolinea e che si concretizza nella morte dei sistemi che fino ad oggi ci si è abituati ad avere garantiti.
Il Trattato di Maastricht prima, quello di Lisbona poi, sono i documenti che hanno impostato la politica europea sul principio, sacrosanto, della sussidiarietà. Si sta parlando di quel “patto” che gli individui stipulano tra di loro, diventando consociati e derogando ad una parte limitata della propria libertà personale per vedersi garantita la più importante delle esigenze: la sopravvivenza. In un sistema complesso come quello attuale, la sopravvivenza si traduce in “benessere” ed in “diritti garantiti” (parallelismo che è il punto di forza della nostra Civiltà, ma anche di debolezza nei confronti di Civiltà ben più motivate e affamate, ma si aprirebbe qui una digressione troppo lunga da trattare), ed il “patto” si trasforma conseguentemente in una serie di regole che cercano un difficile equilibrio tra di loro: efficienza, soddisfacimento delle esigenze dei consociati, stato di diritto e democrazia. Ma cosa avviene quando questo “accordo” non viene rispettato o, forse peggio, l’equilibrio scivola pericolosamente verso gli estremi?
La Circoscrizione è un ente territoriale che funziona come un piccolo consiglio comunale e si occupa solo della manutenzione ordinaria delle vie e delle piazze (nel mio caso del Centro e del quartiere Crocetta di Torino), di alcuni servizi sociali, di molti contributi per associazioni e progetti sul territorio, di qualsiasi problematica vada “segnalata” con veemenza al livello municipale da parte di una comunità piuttosta ampia (sempre nel mio caso, circa 90.000 persone). La funzione dei consiglieri è, prima ancora che di amministratori, quella di sentinelle. In un rapporto onesto in cui il “patto” su cui si dovrebbe basare il convivere civile funzioni, il mio ruolo sarebbe semplicemente quello di recepire le istanze dei residenti, con reciproca fiducia, e di portare avanti battaglie che è giusto non siano la loro primaria occupazione, con gli strumenti democratici adeguati per poterlo fare. Sopra di me, avviene la stessa cosa a livello comunale, poi provinciale, poi regionale ed infine statale. Qualcosa, in questa catena, si è drammaticamente incrinato.
L’opinione pubblica oggi, a parte il risentimento, il rancore, una quota parte di invidia e molta rabbia, prova per gli “eletti” una totale sfiducia, incrinando il funzionamento stesso della democrazia rappresentativa e permettendo che si verifichino due fenomeni: il dominio pressoché assoluto di “tecnici” esponenti del mondo della finanza che ha creato la stessa crisi che ha colpito ed impoverito, creando la loro rabbia, gli elettori, da un lato, e la crescita incontrollata di un fenomeno di antipolitica che è anacronistico, perché nasce dalla volontà di partecipazione (positiva) deformata dallo spirito giacobino della rivoluzione, dall’altro.
Com’è possibile? Semplicemente, nell’adagiarsi nella condizione pubblica costituita, a partire dagli anni ’70 l’apparato dello Stato Nazionale in cui viviamo si è trasformato, da patto quale sarebbe dovuto essere in organismo dotato di vita propria, la cui muscolatura è stata la burocrazia ed i cui cuscinetti adiposi sono e rimangono sprechi, esuberi, indecenze varie come la corruzione. La simbiosi si è trasformata in parassitismo e lo Stato ha iniziato a pretendere sempre di più dall’organismo ospite, la società civile, crescendo al punto da doverne sottrarre ingenti risorse. Ma nel momento in cui la società civile, quale organismo ospite, si è trovata pesantemente indebolita dalla crisi economica, lo Stato non ha più potuto invertire il processo e diminuire le “dosi di nutrimento”; anzi, forte della debolezza della sua vittima, malata d’altra malattia, sta attualmente aumentando la sua fame fino ad avvicinarsi pericolosamente al ruolo di una patologia mortale. Una versione più subdola ma ancor più pericolosa, insomma, dello Stato leviatanico di liberale memoria.
A questo punto, quei cerchi concentrici dell’amministrazione che dovevano circondare il cittadino, formando le clausole del suo patto e garantendogli un collegamento diretto con ogni livello verticale di “governo” sono stati volutamente svuotati del loro ruolo. L’attuale governo ha impoverito i comuni, abolito le province, diffamato le regioni e le camere, sotto gli scroscianti applausi del pubblico e senza prendere quelle misure drastiche che sarebbero servite per snellire (se non per uccidere) il parassita pubblico che ammorba la società civile.
Esiste una soluzione? Personalmente credo che l’unica via d’uscita in una Società che ha voluto dimenticare i propri valori e le proprie origini sia quella di ripartire dal patto fondamentale tra gli individui, contro le sovrastrutture che li opprimono e si nutrono del loro lavoro: prima di tutto dimenticando il federalismo a Costituzione invariata delle tre leggi Bassanini, dimenticando la riforma del Titolo V, già timida nella sua genesi ed ulteriormente svuotata di ogni significato dalla mancata applicazione; in secondo luogo ripartendo dall’idea che le “sovrastrutture” esistono come emanazione degli individui, che gli eletti sono rappresentanti e che il “potere” deve essere una guida “de iure condendo” e non una pletora di burocrati che cavillano sul “de iure condito”. Il punto di partenza è accettare che le condizioni sono irrimediabilmente cambiate, che il parassita non può più cibarsi del mondo produttivo ed anzi deve servirlo com’era in origine, riorganizzandosi fin dalle proprie fondamenta con assetti del tutto nuovi e dimentichi del valore dello Stato Nazione, residuo del Novecento e della sua Storia.
Per questi motivi, perché la Circoscrizione – esempio umile ma indicativo – non sia uno spreco ma possa tornare a fornire risposte, la soluzione non è abbandonare il decentramento, come si propone di fare l’attuale Governo “grillotecnico”, ma renderla più utile con la responsabilità. Ed allo stesso modo, ogni livello deve essere responsabilizzato, anzi, inchiodato alle proprie responsabilità. Partendo dall’individuo si deve creare ogni livello amministrativo sotto di lui (e non più “sopra di lui”) fino ad arrivare a “macroregioni” omogenee che rispettino i particolarismi come ricchezza e non come spreco. In un territorio come il nostro, che da secoli è contraddistinto dall’identità comunale, dai principati e dai feudi, ambire ad un assolutismo regio di stampo francese è impensabile, così come è impensabile continuare a rinunciare ad ogni forma di libertà critica per il proprio quieto vivere. L’assolutismo costa molto meno della democrazia, anche se in quel costo ridotto lascia spazio a molti più sprechi, ma è un sentiero facilmente corruttibile dagli interessi più bassi e dagli istinti più gretti. Soprattutto è la privazione totale di quella libertà, la cui titolarità deve sempre e comunque spettare agli individui che sono disposti a derogarne in parte (non in termini di nuda proprietà) il possesso. 
Per questo la Politica si trova dinnanzi alle due sfide più impegnative della sua recente storia: quella di riacquisire credibilità, diventando consapevole del proprio ruolo di faber fortunae suae, rimodellando lo Stato, snellendolo e suddividendolo amministrativamente con nuovi standard e criteri; e quella di non autodistruggersi nello squilibrio tra la sua vocazione autoreferenziale e leviatanica e l’insopportabile mediocrità di cui si ammanta come protezione, con un pauperismo dovuto agli scandali che non esiste in quanto motivato dalla crisi, ma in quanto ipocrita posa del momento, cui nessuno crede.
E’ l’individuo che non deve cedere e da cui bisogna ripartire, l’unico elemento che possa creare il vero federalismo transnazionale, l’unico appoggio su cui possa essere concepita un’Unione Europea e, al tempo stesso, dimenticata una sovranità nazionale superata. L’unico fattore distintivo della nostra Civiltà da altre che non conoscono il concetto di libertà, e di stato di diritto. Ma l’individuo non è massa, e in tempi di tale decadenza ognuno deve portare avanti la sua lotta, anche quando si trovi solo contro la massa. 
                                                                                     
                                                                       Giovanni VAGNONE di Trofarello e di Celle